I gamberetti, gli anni ’80 e il futuro passato.

Non una rivisitazione contemporanea di un piatto simbolo di una stagione (per fortuna) superata. No, proprio loro: piccoli, mollicci, naviganti nel fluido rosa che dovrebbe esaltarli e invece, ahimè, come un abito sbagliato, ne mette in risalto tutti i difetti.

Cosa volevano rappresentare all’epoca?
E come possono essere sopravvissuti a 20 anni di rivoluzione culinaria?
Eppure lo sono. Come le giacche color crema dei camerieri che li servono, la musica che sento nella hall e i fiori finti sul banco della reception.

Sono lì, ci guardano e ci dicono, con malcelato disprezzo, sì siamo antichi, fuori tempo massimo, superati, disperati, ma non ci arrendiamo. Non cederemo mai, fino a quando i tedeschi mangeranno le nostre lasagne (unte, pallide, sconfortanti) e la nostra pizza (non lievitata, scondita, imbarazzante) e ci chiederanno il bis, noi non molleremo.

Quest’Italia mi atterrisce. E’ viva, presente, pericolosissima.
Figlia dell’arroganza craxiana e del falso boom berlusconiano, lungi dal pensionamento anche quando l’età e le circostanze lo consentirebbero, è aggrappata a un sogno rancido dal quale non vuole svegliarsi.
E sputa, scalcia, inveisce contro noi “giovani” (abbiamo 40 anni ma non importa: se noi non siamo adulti, loro non sono vecchi) che vogliamo sempre cambiare tutto, ci inventiamo diavolerie e disprezziamo le tradizioni e… “gradisce un altro po’ di salmone marinato?”

Ecco. No, non lo gradisco.
La tradizione non è inviolabile, soprattutto se fa schifo. Il delitto d’onore era tradizionale qualcuno per caso lo vuole indietro? (so che ci siete, bastardi!)

I gamberetti in salsa rosa sono lo stesso: retaggio infame di un decennio che dobbiamo superare. Psicologicamente e gastronomicamente.
E’ difficile, lo so, soprattutto per chi come me in quegli anni era adolescente e, in teoria, avrebbe dovuto spiccare il volo verso un luminoso, strabordante, ricco e cremoso futuro.

E allora, per quanto doloroso possa essere, dobbiamo liberarci di questa zavorra di sogni appiccicosi, moda orribile e cibo mistificato.
Dobbiamo superare il trauma, lasciar andare le brutture, elaborare il lutto.

Un mantra da recitare in compagnia per tagliare, finalmente e definitivamente, il cordone ombelicale con la parte di quel futuro passato che non ci interessa più.

Ripetiamo dunque tutti insieme:
addio spalline, eravate ignobili senza appello alcuno, peggiorative di qualunque look, emblema perfetto del tentativo posticcio di sembrare altro da noi ;
addio Claudio Baglioni, insostenibile lagnoso, Ligabue ti ha ormai rimpiazzato nei falò e pure lui è prossimo alla dipartita in quanto residuato bellico degli anni ’90;
addio
tortellini con la panna, pennette alla vodka, gamberi e gamberetti stuprati da salse volutamente barocche, noi oggi vi preferiamo nudi e, magari, crudi. 

Poi ognuno è libero di tenersi nel cassetto la sua privatissima scatolina amarcord (i gettoni, le biciclette, gli U2, la caduta del muro, lo zx spectrum, Troisi…) e magari fare ogni tanto un tuffo nel passato (io, ad esempio, andrò al concerto dei Duran a Roma; all’epoca li odiavo ora mi fanno tenerezza…sarà l’età!) purché si abbia ben chiaro che le cose senza tempo sono quelle che maturano e invecchiando migliorano, per tutto il resto, l’avrete capito, c’è l’addio… :)